Il Bhutan è uno dei paesi più strani del mondo. Quasi inavvicinabile dal turismo di massa (solo 6000 turisti all’anno) per i costi (250 USD al giorno) e per la sostanziale indifferenza del governo ad incrementarlo. Ciò lo rende anche poco trattato dalla stampa, le ultime notizie riportano alle prime elezioni, teoricamente, democratiche nel marzo 2008 che hanno solo confermato il regime preesistente: monarchia paternalistica e aristocrazia famigliare.

Poche macchine e poche strade, case basse e tradizionali, un PIL che comunque cresce del 9% all’anno, e un reddito pro-capite fra i più alti dell’Asia (1300 USD), solo 670.000 abitanti sparsi fra colline e vallate verdissime punteggiate da imponenti forti-monasteri. Insomma i bhutanesi originari non se la passano male e il loro sovrano o Protettore (Druk Gyalpo) se ne impippa di ogni protesta nazionale ed internazionale per la mancanza di diritti delle minoranze, i superstiti nepalesi (Lhotshampa) scampati dalla cacciata di massa degli anni ’90 e i reietti immigrati indiani.

Allora il Bhutan, almeno in Asia, assurse alle cronache. Di punto in bianco, senza problemi furono scacciati oltre 120.000 persone, sequestrate o distrutte le loro case, mandati a languire nei campi profughi, gente che viveva da generazioni nel Paese del Drago. Tutto ciò per rafforzare l’integrità etnica del paese ed evitare le proteste e le richieste di maggiore rappresentanza dei bhutanesi d’origine nepalese (allora il 20% della popolazione).
I rifugiati stanno vivendo da 18 anni nei 7 campi profughi nel Nepal orientale (distretto di Jhapa) sovvenzionati e mantenuti dalle NU, come sempre incapaci di trovare soluzioni e di esercitare pressioni sul Bhutan (che non è una potenza diplomatica) per un ritorno in patria dei poveretti. Forse perché, come tutte le cose che da temporanee diventano stabili, qualcuno si è ben organizzato e fra capi di associazioni, operatori umanitari, rappresentanti vari è stato creato un buon business a scapito della moltitudine di esclusi.

Se il regime di Thimpu, malgrado inutili incontri diplomatici, se ne frega dei rifugiati e non li riprenderà mai indietro, lo stesso è per l’India, da cui il Bhutan dipende economicamente per tutto.
Le risorse idroelettriche sono un boccone appetibile e sfruttato dal gigantesco vicino che può contare sulla fedeltà assoluta del regime anche dal punto di vista politico (il Bhutan non ha relazioni con la Cina).
Del resto l’India, fornisce armi e addestramento anche alla giunta militare Birmana per parare l’espansione politica-economica dei cinesi.
Non sorprende, dunque, che i profughi nepalesi siano lasciati a decantare nelle pianure del Terai, gli unici che si preoccupano sono gli abitanti dei villaggi prossimi ai campi che hanno visto aumentare furti e rapine e il governo nepalese che, prima o poi, dovrà integrare in qualche modo 100.000 persone.

Con queste premesse suona un po’ stonata la grancassa con cui il Bhutan ha proposto il Gross National Happiness, (GNH) come indicatore della salute di una nazione al posto del più materiale Gross National Product (GNP), il nostro Prodotto Interno Lordo. Ha dichiarato il Sovrano: Bhutan seeks to establish a happy society, where people are safe, where everyone is guaranteed a decent livelihood, and where people enjoy universal access to good education and health care. It is a society where there is no pollution and violation of the environment, where there is no aggression and war, where inequalities do not exist, and where cultural values get strengthened every day. (…) A happy society is one where people enjoy
freedoms, where there is no oppression, where art, music, dance, drama and culture flourish.
Belle parole, però se per alzare il GNH bisogna scacciare tutti i poveracci, sono buoni tutti (anche Bossi & c.).

Belle parole, però se per alzare il GNH bisogna scacciare tutti i poveracci, sono buoni tutti (anche Bossi & c.).
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