Giornate tese a Kathmandu bloccato per le proteste. Studenti, autotrasportatori, dealers del petrolio (tutti abituati a benzina sotto costo) scendono nelle piazze e impediscono la circolazione di macchine e camion. Gli studenti ne hanno incendiano qualcuna.
Nepal bloccato dalla progressiva divergenza fra maoisti e congresso sulle cariche dello stato e dell’importante National Security Council. Che dovrà controllare le forze armate e la sorte dei militari\militanti maoisti da inserire nell’esercito (dopo 11 anni di conflitto con le stesse forze armate) o da infilare nei soliti “lavori socialmente utili”.
Sale la preoccupazione fra le persone per il perdurare dell’inconcludente classe politica (anche quella nuova) e l’incapacità di riportare il Paese nella normalità. I maoisti usciti dal governo, l’alleanza in nuce fra maoisti e comunisti moderati (UML) e i costanti incontri fra il Primo Ministro Koirala e il capo delle forze armate destano preoccupazioni.
Qualcuno pensa che lo stesso processo di pace sia in pericolo e che si profili una sorte di dittatura maoista, mentre l’insicurezza e il disordine crescono. A Banke un battaglione della APF (Armed Police Force) s’è ammutinato; i giovani dell’UML (partito comunista moderato) ha costituito la Youth Force (sullo stile degli aggressivi giovani maoisti), sciopero anche dei dipendenti pubblici (il ministro maoista Yadav ha minacciato e rinchiuso in una stanza un dipendente di Patan). Le attività degli uffici in 3915 VDCs (comuni\villaggi), 18 municipalità (le grandi città), 75 Distretti (regioni) sono rimaste ferme per giorni.
La mancanza di governo raffredda le aspettative della gente comune di un ritorno alla normalità e quelle del Paese di rimettersi in cammino e infilarsi nel canalone della globalizzazione per approfittare di qualche occasione di sviluppo economico, individuale e collettivo.
Intanto piove e il monsone si preannuncia più forte del solito provocando frane e alluvioni. Si legge sui giornali la storia di una famiglia di Piprahawa (profondo Terai) che è inseguita dalle acque del fiume Rapti. L’anno scorso fuggì dallo straripamento del fiume che gli distrusse la casa e i campi, quest’anno anche. Questo per dire che i problemi (frane e alluvioni e malattie connesse) sono ricorrenti e che, malgrado centinaia di esperti, meetings e organizzazioni dedicate al “disaster risk management” tutto è sempre uguale.
Lì sotto, nel Terai profondo, la gente vive in capanne di arbusti con qualche metro di campo per sopravvivere, e tutto sembra immutabile. La politica e i reports sui Millenium Development Goals non giungono né influiscono sulla loro esistenza (come in quella di milioni di contadini del sub-continente indiano)
Del resto la leadership della capitale, da anni, non riesce a cogliere neanche qualche frammento d’opportunità derivante, almeno per alcuni settori economici, dal nuovo ruolo dinamico di Cina e India nel mercato globale.
Politica debole, prezzi alle stelle e cumuli di spazzatura nelle strade di Kathmandu questo è quanto è arrivato, almeno per ora, dal mercato globale.
Per altri va meglio. Il multimiliardario Mukesh Ambani (secondo Forbes fra i primi ricconi del mondo) ha messo su casa (senza mutuo): un bel grattacielo di 27 piani nel centro di Bombay. Costo come il PIL annuo delle Maldive. Non se la passa male neanche la Bharti Airtel che si è comprata la Telecom sudafricana sborsando USD 75 milioni (PIL annuo del Bangladesh). In sintesi le 10 compagnie indiane più grandi hanno un fatturato pari a quello di Nepal, Bangladesh, Sri Lanka e Pakistan messi insieme. Il potere è dunque lì.
Una nuova “spending class” sta facendo la fortuna di questi gruppi in tutta l’Asia e i nepalesi vorrebbero farne parte.
Cambiano anche le teste. Un tempo per un indiano (o nepalese) il posto di lavoro più ricercato era nello stato e file interminabili di postulanti chiedevano un posto di maestro o impiegato negli uffici dei burocrati. Addirittura nei palazzi governativi più antichi ci sono appositi rifugi per ospitare richiedenti e famiglie. Oggi lo status e condizioni di vita migliori si hanno con un MBA o con la fortuna di entrare a Bollywood o incidere un CD. Il barbiere diventa hair stilist e il sarto dress designer e, positivamente, anche i lavori più umili e da bassa casta diventano socialmente accettati.
Gli ideali parsimoniosi e socialisteggianti di Nerhu sono stati sostituiti, con l’apertura dell’India ai mercati internazionali (1990), dagli ideali pratici e materiali dei nuovi ricchi; il Nepal, sub-integrato all’India, ha, per ora, assorbito solo le aspettative.
Un quadro fatto più di colori scuri che chiari quello che mi sembra emergere dal mondo, inevitabilmente, dominato dalle corporations e dai modelli di consumo e di gestione del potere da esse proposto.
L’Asia cerca, faticosamente, d’inserire qualche tratto di colore.
A parte i menù vegetariani di Mac Donalds, il contesto di diffusa povertà in cui le grandi corporations indiane producono e vendono sta inserendo alcuni elementi nuovi nelle loro politiche commerciali e industriali.
La novità, segnalata da qualche studioso indiano, è che alcune multinazionali indiane (e in qualche misura asiatiche) hanno inserito nei loro progetti azioni dirette a ridurre la povertà e promuovere uno sviluppo generale sia attraverso la produzione di prodotti specifici a costi sostenibili sia con investimenti sociali.
Logica determinante è l’allargamento dei propri mercati ma la cd. “corporate social opportunity” può divenire uno strumento a disposizione degli attori istituzionali dello sviluppo (governi, organizzazioni internazionali, ONG e gruppi locali) , se esistessero le capacità di sfruttarla e guidarla da parte di quest’ultimi.
Sono citati gli esempi della ITC con il progetto E-Coupal (azienda vincitrice del premio Stockholm Challenge 2006 per l’utilizzo di information technology per lo sviluppo economico delle comunità rurali), stesso impegno per Unilever India e Shakty. Nei portali web di queste aziende si legge l’impegno per “ widening its farmer partnerships to embrace a host of value-adding activities: creating livelihoods by helping poor tribals make their wastelands productive; investing in rainwater harvesting to bring much-needed irrigation to parched drylands; empowering rural women by helping them evolve into entrepreneurs; enhancing livestock quality to significantly improve dairy productivity; providing infrastructural support to make schools exciting for village children”.
Lo stesso avviene in Nepal, con le consociate locali, attraverso la diffusione di prodotti per l’igiene (Unilever Nepal), interventi nei villaggi (Surya Nepal-ITC), e alcune banche che sostengono progetti educativi e sanitari.
L’obiettivo sarebbe sviluppare la PPP (Public Private Partnetship) in cui aziende, governo e ONG/gruppi locali e comunità siano coinvolti in progetti di sviluppo di strutture (strade, scuole, energia, agricoltura e allevamento, sistemi idrici) e servizi (educazione, accesso alla sanità, prevenzione).
Qualche timido tentativo lo tentammo in Nepal, coinvolgendo una struttura privata (l’Ospedale di Dhulikel) e le comunità (tramite i Comitati Scolastici) per assicurare attraverso una specie di schema assicurativo l’ospedalizzazione dei bambini in alcuni villaggi di Kavre; costituendo una cooperativa locale (finanziata dalle famiglie) che in partnership con la Nepal Electricity Authority e altri soggetti privati deve costruire e poi gestire un grid elettrico nelle comunità interessate; cerare le condizioni di mercato e sviluppare marketing di qualità per i prodotti confezionati da gruppi di donne detenute con cui iniziammo un progetto nelle prigioni femminile di Kathmandu.
La capacità di sfruttare per i settori socialmente più marginali le opportunità del mercato globale e degli interessi delle companies è un opportunità. L’hanno capito anche i maoisti nepalesi che nel loro programma economico hanno dato enfasi alla PPP.
Altra opportunità per l’integrazione nei mercati mondiali di stati marginali e deboli (e quindi dei loro cittadini) può venire dal grande disegno di creare una sorte di Unione Europea in Asia con un’unica moneta, la Rupa.
Il Nepal, per esempio, ha beneficiato del tasso di cambio fisso con la Rupia indiana stabilizzando la propria moneta in un periodo di tracollo economico. In generale un blocco regionale di libero transito di merci e persone (stile Unione Europea) consentirebbe un maggior controllo delle risorse e dei processi economici per i paesi membri rispetto ad affrontare il mercato globale singolarmente.
Dall’Asia s’apre, forse, qualche spiraglio perché anche gli esclusi, dall’apparente, uniforme e appiattito grigiore del sistema economico globale, possano infilarsi e metterci un po’ di colore.