

Prachanda
M’immagino il prossimo futuro in cui un governo a guida maoista s’insabbierà nei trappoloni messi dai partiti tradizionali, forti dell’esperienza ventennale nel creare instabilità e ingovernabilità e nel frattempo spartirsi la torta attraverso corruzione e nepotismo. Immagino Prachanda e Bhattarai grigliati sui carboni ardenti della nuova costituzione, riforma federale, riforma giudiziaria, mancanza di benzina, crisi economica. Alla finestra l’astuto Koirala, pronto (se non muore prima) a ridiventare il salvatore della patria e guidare un governo d’unità nazionale con i maoisti stracotti e senza velleità riformatrici.
Progetto pericoloso e mirato unicamente alla gestione del potere che rischia, però, di ri-spingere nella violenza parti dei maoisti specie gli ex militanti dell’esercito di Liberazione Popolare (sempre in attesa di un occupazione e salario) e i giovani del YCL (prossimi al banditismo).
Per concludere l’universo degli ingenui e pazzi deve essere ri-citato il Vice Presidente Parmananda Jha (politicanti\lottizzati\giudici di cui sono pieni i parlamenti e i centri di potere in tutto il mondo), che è riuscito, vestendosi all’indiana e pronunciando il discorso ufficiale in Hindi, a scatenare cinque giorni di violenze contro-violenze in tutto il Nepal. Come Prachanda, ora cerca di coprirsi la testa (?) di cenere e fare marcia indietro.
Il gran casino anti-indiano permette al potente vicino di richiedere, con sempre maggiore decisione, “la protezione degli interessi indiani”, aggiungendo: i maoisti nepalesi implicati in scontri in Orissa, la criminalità senza controllo ai confini, la mancata protezione degli investimenti. Il disordine ai confine (s’aggiunge e alimenta la tensione interna), gli attentati degli ultimi giorni hanno moltiplicato le pressioni sul Bangladesh perché intervenga contro i campi e gli esuli islamici rifugiati, la stabilità del Nepal diventa sempre più un urgenza da risolvere in qualsiasi modo.
Come se non bastasse la pressione indiana ecco comparire i cinesi che chiedono la chiusura dei confini indiani per scoraggiare il movimento dei profughi tibetani e le manifestazioni connesse. China has cautiously expressed its concern over the existing 1,700 km open border between Nepal and India, accusing that Tibetans have been frequently crossing the border to launch free Tibet agitation in Nepal,”
Dichiarazione in risposta alla ripresa delle manifestazioni a Kathmandu e relativi arresti (oltre 1500 da marzo) con un via vai continuo e giornaliero dalle prigioni. Mi dice Satish, ragazzo dei computers: per i nepalesi, le proteste tibetane sono poco comprensibili (i risultati pratici sono stati il blocco per mesi dei confini con fine del turismo per il Tibet e dei commerci nelle regioni settentrionali) e un ulteriore fastidio che s’aggiunge alle proteste degli studenti e a quelle a rotazione di altri settori economici. I tibetani sono ricchi, ammanigliati ai dharma-people occidentali e grandi costruttori di monasteri e templi invece che scuole ed ospedali. Giunti in brache di tela alla fine degli anni ’50, grazie al network famigliare, all’intraprendenza commerciale e al buddhismo in poco più di 100.000 sono diventati padroni di mezza Kathmandu; creando potenti invidie e anche minacce di rimpatrio se continueranno i disordini e verranno messe in pericolo le buone relazioni con la Cina, dichiara il dimissionario Ministero degli Interni.
Anche qui, come in Tibet sono in maggioranza giovani quelli che stanno protestando, una generazione che non ha mai visto il Dalai Lama ma che trova nei valori della tradizione un collante per contestare l’esclusione dei tibetani dal “miracolo economico” importato anche sull’altipiano dai cinesi.
Sull’altopiano i tibetani sono ca. 6 milioni, una minoranza, almeno nelle città, rispetto agli Han. Lhasa ha cambiato aspetto in poco più di 10 anni, trasformandosi in una città cinese con Karaoke, grattacieli e superstrade. La tradizione tibetana, monasteri, monaci, è un elemento del folklore e attrattivo per il turismo interno e internazionale, basta che non interferisca con la volontà di Pechino.
La novità delle dimostrazioni dei tibetani negli ultimi mesi, rispetto alle precedenti, (per esempio quelle del 1989) è che hanno coinvolto gli studenti tibetani di Beijing, Lanzhou e Chengdu come monaci e contadini di del Sichuan e Gansu, regioni fuori dal TAR (Tibet Autonomous Region).
Il Dalai Lama (Oceano di Saggezza) ben comprende che queste manifestazioni, utili nel periodo olimpico per dare visibilità ai problemi dei tibetani, non possono portare a niente se non ulteriori violenze contro i tibetani. Chiede, come molti intellettuali cinesi (che hanno firmato una petizione al governo), un dialogo diretto a integrare, con uguali diritti, il suo popolo nello sviluppo economico della Cina. Per adesso gli incontri sono solo serviti a calmare l’opinione pubblica mondiale.
Non sembra che la paranoia del Governo cinese sia destinata a placarsi ma solo ad aumentare nel dopo-olimpiadi; la paura di manifestazioni sindacali, politiche, attentati, e , addirittura, kamikaze tibetani. Ho paura che il tempo per richieste di autonomia politica è finito nel 1959, quando tutto il mondo ha ritenuto il Tibet, economicamente e politicamente, marginale per schierarsi contro l’invasione cinese.
Oggi la questione tibetana è ridotta alle dispute di confine fra India e Cina nell’area di Tawang, sugli altopiani orientali altopiani al confine con il Bhutan ( geograficamente e culturalmente tibetana ma politicamente indiana), importante corridoio strategico che la Cina, al pari di altri territori nel Ladakh (il piccolo Tibet ad occidente) considera di sua proprietà dopo le confuse divisioni che hanno seguito la guerra indo-cinese del 1962. Intanto gli indiani hanno riaperto l’aeroporto militare a 4000 metri nei pressi di Leh (Ladakh). Si prepara il dopo olimpiadi.