Un anno è già passato dalle proteste del 18 settembre in Birmania, i riflettori si sono spenti e la grancassa è cessata (lo stesso sta accadendo per il Tibet). Quando i media internazionali illuminano un luogo, per qualche attimo, nel cono di luce si precipitano le veline degli human rights, i cercatori di fondi internazionali, i politici in fase di bollitura.
Poi, le luci si spengono, e le vittime perdono ogni appeal mediatico e di “fashion” per l’opinione pubblica e la “partecipe” società civile. Resistono solo le tre categorie citate che hanno rastrellato qualche prebenda. La gente comune a Myanmar come in altri posti non è neanche sfiorata dal battage e continua la sua lotta per sopravvivere, per migliorare la sua esistenza, per lavorare, mandare i figli a scuola; questo a loro interessa più che parlamenti, diritti dell’uomo cartacei, proclami e convenzioni.
Questo è accaduto in Birmania dove poco è cambiato dopo la grancassa, la fioritura di Comitati, le pashmine arancioni e altro spettacolo. Come in Tibet, le condizioni reali delle persone cambieranno quando le minoranze (tibetani) o il Paese (Myanmar) non saranno più esclusi dalla globalizzazione. Allora avranno i soldi per viaggiare, comprare i libri, collegarsi a internet e fare blog, e quindi essere più liberi. Contemporaneamente perderanno qualcosa o molto, avranno altre e, forse, più pesanti schiavitù, come è accaduto da noi.
A livello globale, ogni tanto l’Occidente cerca di dare un colpo al regime militare birmano. Dà un po’ fastidio che 1,50% delle riserve mondiali di gas naturale (fonte ADB), buone riserve petrolifere e altre risorse (legname pregiato, miniere, oppio) stiano progressivamente finendo in mani cinesi, grazie alla diaspora e agli investimenti (spesso mascherati da aiuti come accade in Africa).
Gli indiani cercano di stare al passo ma non ci riescono così come la Thailandia che, comunque, figurano insieme a Germania, Gran Bretagna e Francia (tutte democrazie ricamatrici dei diritti) fra i maggiori importatori.