Finisce la storia di Babu, il clochard di Genova

villaggi

Mi sembrava giusto completare la storia di  Babu Raya Khadka, il clochard nepalese di 43, morto di freddo prima di Capodanno, sotto i portici del teatro cittadino.
Da Genova  segnalano che oggi il poveretto è stato cremato e le sue ceneri verranno trasportate in Nepal. Ai funerali erano presenti ben due assessori comunali. Tutte le spese (compreso il viaggio del figlio) sono state sostenute da un Associazione di nepalesi di Milano.
Babu era un contadino impoverito di una sotto-casta dei Chetri (un tempo i guerrieri) sparsi nei villaggi collinari del Nepal e nel Terai. Non vedeva la sua famiglia da 10 anni come tanti migranti nepalesi, magari più fortunati di lui, sparsi in India, negli Emirati, in Malesia, negli USA e in Europa.
L’amico di Genova si chiede, perchè appena sei morto saltano fuori nome, cognome, nazionalità, si presentano assessori e associazioni; quando sei vivo non hai cittadinanza, lavoro, parenti, sostegno.
Oggi, molti di questi migranti, stanno rifluendo dalle città e dai paesi più ricchi verso le campagne da cui erano partiti. Solo in Cina si calcola che il 10% dei 130 milioni di persone (una delle più imponenti migrazioni dell’umanità) corsi nelle città per costruire case, ponti, strade stia tornando nei villaggi a coltivare il riso per sopravvivere. Stessi fenomeni sono segnalati in India e in altri paesi asiatici.
Una domanda sarà se  gli stati poveri, i villaggi, e le famiglie da cui provenivano saranno in grado di reggere la fine delle “remittance” e riconvertire, nuovamente, l’agricoltura per sfamare i nuovi arrivati.

Una risposta a “Finisce la storia di Babu, il clochard di Genova

  1. La leggenda di Babu, a Natale

    La striscia rossa, il vestito nero, uomo di fede ma non nel cielo;
    con la sirena, arma spianata, venì e la notte ci fu squarciata.
    Era vigilia del buon Natale, dormivo dentro ai miei propri stracci,
    di fronte a Faber da ricordare, sonno leggero, sognavo viaggi.
    Viaggi nel cielo, poiché son Babu, portavo dolci pe’ i ragazzini
    e dai camini dovevo entrare… Stavamo stretti, molto vicini,
    il santo nero con la sirena si mise a urlare, poi ci disciolse.
    Gettò il mio sacco, prese la tela, presto fu l’alba, dopo fu notte.
    Io piano, piano salii lassù, dietro al colosso della colonna;
    la mia coperta, che ormai non c’era, faceva un freddo della Madonna.
    Il Santo Natale, le luci accese, ripresi presto a vaneggiare;
    la febbre alta che mi difese, suoni confusi, tanta la fame.
    Venne la notte del primo martire, quello che presto seguì Gesù
    gli dissi: Stefano, dai vengo anch’io. Distolsi gli occhi, non c’era più.
    Poi tra le luci, accese a Natale, colsi una stella a brillar lassù;
    bussai alla porta, potevo entrare, si stava meglio nel cielo blu.
    Quando discesi, dopo tre giorni, ad aspettarmi con la sirena
    vigili e santi, curiosi intorno, gli amici cari e Madre Teresa.
    Là scorsi Carlo con la ferita, senza parole me lo abbracciai,
    capii a quel punto che non ero in vita, sciolsi l’abbraccio, poi mi voltai.
    Partì un applauso, da quella folla ed un amico gridò più forte:
    vi ricordate tutti di noi, soltanto adesso, dopo la morte!
    E una ballata salì nell’aria, era Fabrizio, che ora suonava;
    raggiunsi Jones sulla collina, sotto la festa continuava.

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