Nepal, maoisti alla carica

Tutto fermo in Nepal durante il secondo giorno (tre previsti) di sciopero generale organizzato dai maoisti. Era stato promesso per il 10 dicembre e poi rinviato per i colloqui (falliti) con i partiti di governo. Sciopero, in Nepal, significa che nessun veicolo può circolare (neanche le moto e a volte i risciò e i carretti);  anche le ambulanze, in realtà, spesso, usate come taxi collettivo, sono sottoposte a controlli. Gruppi di manifestanti armati con nodosi bastoni picchettano le strade e gli uffici, bruciano qualche copertone, litigano con quelli che vogliono forzare i blocchi con le scuse più disparate. Ogni tanto si lasciano andare, malgrado le richieste dei vertici, a qualche atto di vandalismo contro le auto, le moto e i negozi. Chiuso tutto, uffici, negozi, teashops, venditori ambulanti. Insomma il deserto.

Contemporaneamente (come accadde in Italia da parte della Lega Nord) sono state proclamate stati autonomi in tutto il Nepal con l’opposizione degli stessi residenti; solo  propaganda e pressione.

A Kathmandu le strade sono deserte, ieri qualche tafferuglio con la polizia, pietronate contro l’auto del ministro del turismo Shatrughan Mahato, in viaggio verso l’aeroporto per raccogliere il primo ministro Nepal di ritorno da Copenaghen; durante gli scontri con la polizia a Banashwor sono stati picchiati alcuni giornalisti e un parlamentare del Congresso. Nel pieno centro a Putilasadak (area universitaria), gli studenti del Shanker Dev Campus si sono scontrati con la polizia, una trentina i feriti.

A Dharan (est Nepal) , invece, i militanti maoisti si sono messi a ripulire le strade della città, sorprendendo i poliziotti già pronti alla zuffa. A Parasi (Terai centrale) i commercianti hanno picchettato gli uffici dei maoisti per protestare contro l’ impossibilità di lavorare.

Un bilancio non brillante con una cinquantina di feriti e un centinaio d’arresti nella  prima giornata di sciopero, oggi sembra tutto più tranquillo. C’è un senso di disperazione in questa mossa dei maoisti che trova di fronte dei muri di gomma da parte degli altri partiti e una progressiva ostilità delle popolazione che vorrebbe sopravvivere. Irresponsabilità è il commento più diffuso diretto contro  tutta la classe politica. Il governo è per definizione responsabile dello stato del paese, dell’eslusione del partito di maggioranza relativa (i maoisti) ma quest’ultimi s’abbandono ad atti di violenza, intimidazione che stanno giustificando la sua esclusione. Continuano, in sordina incontri e colloqui per uscire dalla crisi. Si parla, addirittura, di un governo d’mergenza comandato dal Presidente della Repubblica, il falco Yadav, e appoggiato dall’esercito. Sarebbe la tragedia. Poi si discute del suo relegamento a un ruolo decorativo e a ulteriori concessioni ai maoisti nel disegno della nuova costituzione. Sembra di essere al mercato di Asan Tole dove si contratta e litiga per qualche rupia. 

 Lo stato del paese imporrebbe un governo di unità nazionale, ma più che una formula servirebbe assunzione di responsabilità da parte dei partiti e la rinuncia a fette di potere. Per adesso non si vede ancora la luce.

In questa situazione d’emergenza istituzionale, sociale ed economica sconcerta vedere che l’unica cosa che si muove è l’acquisto di armi (non-lethal, cioè veicoli, comunicazione, equipaggiamento, etc) sia dalla Cina (vendute oltre Euro 2,5 milioni) e dall’India (pagate cash al 40%) . Ma dove li trovano i soldi e a chi vanno le mazzette.

Qui, come nell’intera Asia, l’armamento è una fonte di potere e di business. L’India ha quasi 4 milioni di soldati (più 1 milioni di paramilatri) e spende USD 33 miliardi all’anno per la difesa. I paesi intorno non scherzano come spese militari: Pakistan $4.8 miliardi, Bangladesh $830 milioni, Nepal $100 milioni e Burma $30 milioni (sorprende un po’ le basse spese di questo stato definito canaglia). Media del 30% della popolazione che vive con meno di USD 2 al giorno, che dire.

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