Prima Kathmandu era diversa

Robi Vitali è un amico e noto tibetologo. Ha vissuto per decenni in Nepal scrivendo e ricercando sulla cultura del #Tibet. Qui un pezzo del suo articolo scritto per il libro “Il mio Nepal”

Prima Kathmandu era diversa.
Resta la memoria di Kathmandu al primo impatto, quello vissuto da ragazzi alla fine degli anni sessana ed a cavallo dei settanta. Piu’ dei ricordi personali, comuni a tanti suppongo, e’ quello che rimane del senso delle cose di quegli anni che conta.
Il lungo periodo prima del disastro umano, ambientale e mentale non e’ un gioco della memoria che rivisita il passato con indulgenza. Piuttosto, una rivisitazione con il realismo del senso critico?
Un mondo integro e coerente ma troppo fragile per poter durare.
Si respirava, palpabile, un’aria che il medioevo fosse vivo in citta’ e non una sclerosi criticabile. C’era un’atmosfera vibrante. Un senso che esperienze interessanti e non seppellite nel tempo fossero li’ pronte ad essere afferrate.
Non sempre e’ possibile unire l’attualita’ al passato. Allora lo fu.
E la gente locale, chiusa nell’isolamento dei secoli, si apriva all’aria nuova che spirava nei vicoli delle citta’ vecchie e per i villaggi nella valle.
Chiunque abbia vissuto a Kathmandu in quegli anni, chiunque sia stato vivo nel flusso umano e culturale della valle, ne ha fatto parte. A meno che non si sia autoescluso dall’atmosfera che si respirava in giro per i templi e le feste religiose, o non abbia condiviso qualcosa con persone prese nel pensiero e nelle azioni da quel senso di situazione irripetibile.
Fu il colpo d’ala prima del processo del disgregarsi che sembra non fermarsi piu’.
Allora c’erano tre auto e Kathmandu finiva appena fuori Ason Thole, la piazza con il tempio dedicato ad Annapurna.
Il mondo antico della citta’ era espresso dai suoi monumenti. Il Kastamandapa ed il suo spazio interno come una grande loggia fiorentina. Il Taleju con le pagode dalle proporzioni perfette. Il tempio di Mahankal a Thundikel, con la divinita’ che ancora oggi vola dal Tibet ogni martedi’ e sabato ad abitarne la statua. I garuda (shang shang) in pietra nell’atto di offrire la propria devozione ai templi a cui sono preposti, i leoni a proteggere gli ingressi di case e edifici sacri. Ma era l’armonia architettonica complessiva che faceva delle valle un unico habitat coerente.
Il mondo antico della citta’ era anche il quieto scorrere esistenziale della sua gente che vestiva ancora i propri abiti fermi al medioevo.
Quelli che adesso sono arterie principali e il quartiere turistico erano campi coltivati punteggiati in lontananza da templi fuori citta’ oggi schiacciati da una distesa di cemento.
O crollati a seguito dell’ultimo terremoto, con cui gli dei e i naga si sono ripresi i luoghi di culto che avevano affidato agli umani.
Le notti per quasi tutti a quei tempi erano a dieci rupie bed and breakfast a Joche Thole, al Camp o al Kathmandu Lodge. Altri decisero di vivere in una camera come la gente di Kathmandu. Non che si volesse scimmiottare i locali. Lungi dal provarci e, di certo, non si comincio’ a farlo da neofiti.
Perche’ il rispetto per il mondo in cui si viveva era importante. Un muoversi in punta di piedi con la consapevolezza di essere ospiti. E di non voler prevaricare con manifestazioni del proprio ego quello a cui si assisteva. Si era troppo presi dal vissuto per pensare di proporsi in modo differente.
S’imparava a vivere la vita come la vivevano gli abitanti di Kathmandu.
Il senso perenne del tempo trascorso in quel mondo e’, nonostante quasi un mezzo secolo passato in Asia, che si possa, al massimo, vivere il ruolo di stranieri, assorti al pensiero della vita che scorre accanto.
Mossi dalla passione di studiare culture che non finiscono mai di stupire con scoperte, cercate si’, ma spesso inaspettate.
E’ con la gratitudine provata dalla prima ora che le tradizioni dell’Himalaya e degli altopiani hanno dato un senso alla nostra vita. E forgiato il carattere.
Si e’stati testimoni della purezza e dell’estrema durezza di un mondo con una cultura ed un equilibrio umano ed ambientale cosi’ fragile da essersi incrinato in modo irrimediabile.
E’ rimasta una fitta dolente nel cuore, anime spezzate dalla bellezza, dall’unicita’ di un mondo e le sue espressioni che per crudelta’ (Tibet) o cecita’ (la valle di Kathmandu) sono venute a mancare.
Ma e’ anche bello tornare a rivivere quei giorni senza rammarico o nostalgia perche’ sono sentimenti inutili.
I primi anni furono i piu’ semplici.
Si era spettatori di un’espressione culturale che sarebbe stata disgregata per l’intervento dell’occidente che impose i suoi dettami. Con l’attivo contributo dei locali che seppero vederne il potenziale economico. Non di certo i ragazzi che portarono un entusiasmo contagioso.
La vita erano tasche vuote e molta felicita’. Vita frugale e presenziare ai concerti devozionali della gente nei cortili e nei passaggi dei templi quando scendevano le tenebre. Nei vicoli della citta’ vecchia era musica sacra tradizionale con tabla ed armonium. Ci s’imbatteva nell’autenticita’.
Oppure i raga alla Kathmandu Guest House il venerdi’ sera. Il venerdi’ sul tardi era musica colta con musicisti dal training classico.
Si andava attraverso i campi dove oggi sorge Thamel per raggiungere la Kathmandu Guest House, un edificio imponente isolato nel verde. Prima che diventasse il pilota dei cambiamenti che seppellirono tutto sotto il macigno del businness. Quando la Guest House introdusse il comfort all’occidentale a prezzi che gli hippies non potevano permettersi.
Fu il capostipite del turismo e del guadagno che ne deriva. Nacque Thamel, il quartiere turistico dove manipoli di sprovveduti stranieri beoti si mischiano con la scortesia locale.
Alla fine dei ’60 e nei primi ’70, invece, si respirava in citta’ un senso di liberta’. Quello che le aspirazioni giovanili sognavano di trovare. Da Berkeley a Kathmandu.
Valori giovanili si dice, come liberta’, giustizia, equanimita’, pacifismo ed empatia. Valori eterni—credo—anche oggi che sono vecchio ed il mondo non e’ cambiato, purtroppo. E mi auguro di non essere cambiato io, sarebbe un disastro.
Si cercava un modello di vita diverso. Kathmandu e l’Afghanistan ne offrivano uno, piu’ di Goa con il suo edonismo e la sua cultura cattolica.
Molti erano arrivati a Kathmandu, il capolinea del viaggio verso l’Asia per cercare se stessi. Perche’ i valori del consumismo occidentale non riuscivano a riconoscerli. Si pensava ci potesse essere un altro modo di vivere.
Utopia?
Per molti—almeno per qualche stagione—l’incredibile sembrava essersi realizzato. L’utopia aveva trovato una dimensione a Kathmandu.
L’utopia agli occhi di molti giovani finiti a Kathmandu per cercare un’alternativa o per disertare dalla guerra in Vietnam era reale nelle strade della citta’ e gli spazi della valle.
Si e’ sempre parlato di Kathmandu e la droga. E’ vero, c’era molta droga. E per un nutrito gruppo era l’occupazione principale.
Comunque non rubavano, non facevano del male a nessuno, ne’ violenze ne’ conflitti. Come molti ben pensanti fanno.
C’era chi si stonava e basta.
Ma non tutti erano li’ per farsi.
C’era anche chi non perdeva un festival nella valle—una media di 28 al mese—per capire le espressioni popolari. E quelli a cadenza piu’ distante come Indra Jatra o addirittura cosi’ lontani negli anni come il Samyek. Che sono bellissimi ancora oggi e rimangono un’esperienza indimenticabile.
Chi andava a godersi i luoghi medievali—i templi, le murti, le piazze, le fontane, i cortili.
Le gite a piedi a Changu Narayan erano un classico. Attraverso i campi fioriti e con ciuffi di bamboo colossali, su per la collina fino al villaggio ed al tempio con i suoi capolavori di scultura antica vishnuita a respirare la pace del luogo.
Chi studiava il Sanscrito, il Devanagari o il Tibetano. Chi scopri’ che il Tibet e’ stato un grande esperimento culturale, unico nella sua tipicita’.
C’era chi era preso dalla filosofia, la religione, la musica, l’arte, la storia, le tradizioni, l’antropologia.
Molti degli intellettuali cha hanno aperto alle culture dell’Asia al di la’ dell’elitismo colonialista hanno avuto stagioni formative in cerca di conoscenza nella valle. Furono anni importanti.
Lungi da me pensare che fu tutto un idillio. Ci furono anche abusi e comportamenti contrastanti con l’atteggiamento generale.

Gli hippies hanno fatto la leggenda di Kathmandu.
Se Kathmandu e’ ancora oggi leggendaria per chi non ne ha visto il degrado ma, al solo sentirne il nome, la sogna, lo si deve agli anni degli hippies.
Ed i posti frequentati dagli hippies. Joche Thole ossia Freaks Street, Pig Alley, il Cabin Restaurant, il Kathmandu Lodge, il Camp Hotel hanno contribuito alla leggenda.
Gli anni degli hippies.
Non di certo gli anni in cui gli americani imposero il controllo sui nepalesi. Ed il business prese il sopravvento.
Non gli scalatori. Le loro imprese sono una profanazione degli dei delle montagne agli occhi degli abitanti delle alte valli.
Ne’ gli sportivi che sgambettano sulle piste del trekking senza capire una iota delle culture che si dispiegano davanti ai loro occhi.
Nessuno andava a camminare per il solo scopo di camminare. Il salutismo era sopraffatto dall’interesse del molto che la valle offriva. Senza togliere nulla all’incanto delle valli nepalesi nella catena himalayana.
Il massimo pensabile era la scalata ai piani superiori ed inacessibili del Kastamandapa lungo la scala in legno addossata alle pareti del suo grande spazio interno. I gradini consunti dal tempo s’inerpicavano fin su alla botola d’ingresso e alle stanze sacre. Capito’ una volta che la botola era aperta e la scalata ebbe successo.
Il bello di Kathmandu e’ durato qualche anno. Poi la valle inizio’ a subire una trasformazione in peggio.
#IlMioNepal ph: tratta dal libro Asan Tole

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